«Sono cresciuta in una famiglia piuttosto singolare, siamo in cinque fratelli, la televisione era completamente bandita, passavo molto tempo a disegnare su un minuscolo tavolino assieme alle mie sorelle, amavo costruire piccole cose». Come per molti dei creativi che abbiamo incontrato in questi ultimi mesi, anche per Caterina Gabelli il ruolo della famiglia e l’esperienze vissute nella sua infanzia, direttamente o indirettamente, ha influito per tutto l’arco della vita sulla sua necessità creativa, plasmandone l’identità che la contraddistingue oggi. «Durante il liceo classico ho realizzato quanto sterile possa essere la cultura se privata della creatività, dopo la scuola decisi di iscrivermi al corso di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’Accademia allora aveva ancora una formazione molto tradizionale, c’era però una buona libertà di spaziare tra un corso e l’altro e di costruirsi quindi un proprio percorso. Non riuscendo a realizzare quadri grandi – forse per timidezza, inadeguatezza o scarsa convinzione – mi sono concentrata sul disegno, cercando di approfondire questa dimensione impalpabile e fragile, ma anche strutturale per tutto il campo delle arti visive. Penso infatti che il disegno sia lo scheletro, la struttura invisibile, che sostiene tutto quello che produco, che sia una foto, un’illustrazione o un set per uno shooting».
Già all’inizio del suo racconto, emerge subito e con forza la difficoltà di racchiudere l’identità artistica di Caterina in una definizione, come lei stessa ci confessa: «non mi sento davvero a mio agio con le classiche definizioni, posso dire che lavoro con le immagini e questo mi basta». Tale complessità nasce e si alimenta costantemente da una sua spiccata curiosità ad approfondire e indagare diversi campi, che vanno a formare un retroterra creativo d’ispirazioni composto dai più variegati punti di riferimento. «Sono sempre stata affascinata da come disegnano i bambini, per come organizzano in maniera imprevedibile la composizione su un foglio, per come sintetizzano le forme. Aspiro ad avere quella stessa libertà quando disegno, cosa che non è affatto facile. Inizialmente sono stata influenzata molto da artisti come Paul Klee, per i suoi disegni graffiati, per certi aspetti primitivi, ma anche molto eleganti, e Hans Arp per come accostava forme e colori in una sintesi invidiabile. Poi mi è stata di grande ispirazione la poetica di Fausto Melotti, con la teoria dell’antimateria e le sue ceramiche leggere dai colori vibranti. Nell’opera dell’immortale Piero della Francesca ammiro la grande pulizia compositiva dei suoi quadri, la nitidezza del disegno e il colore che trovo ancora molto contemporaneo, e infine – per arrivare ad autori più contemporanei – non posso non citare il lavoro di David Hockney per i suoi disegni a matita e le sue incisioni e Joan Jonas, per la capacità di esprimersi attraverso l’utilizzo di mezzi semplici dal forte valore simbolico».Tra i grandi maestri dell’arte rinascimentale fino ad arrivare agli interpreti della cultura occidentale più moderna, trovano spazio, tra le influenze di Caterina, anche creativi contemporanei come Peter Millard, il quale «lavoro sul disegno animato è di grande ispirazione per la capacità di ricollegarsi a quel mondo infantile selvaggio da cui tutti veniamo. Lo trovo divertente, per il ritmo incalzante e le trovate bizzarre, ma nello stesso tempo anche malinconico».
Caterina nel 2008 a Venezia, insieme a Sara Maragotto e Matteo Baratto, ha dato vita al collettivo Studio Fludd, da qualche anno migrato a Torino. Ad oggi il gruppo, al quale Matteo Baratto sono subentrate Chiara Costa ed Eleonora Diana, è attivo negli ambiti dell’art direction e delle arti grafiche, dello styling ed exhibition design, accomunati e connessi da un interesse per la ricerca e l’educazione visiva. Alle sue influenze dunque, si mescolano quelle di Sara e degli altri colleghi, alimentando così la sua eclettica visione. «Quando ho conosciuto Sara abbiamo iniziato ad appassionarci insieme, tra i banchi dell’Accademia, a immagini che stanno ai margini della storia dell’arte, ossia quelle scientifiche. Abbiamo approfondito lo studio della rappresentazione dell’anatomia umana dal Medioevo fino ai giorni nostri, e poi ci siamo imbattute in svariate tipologie di immagini: dagli erbari alla cartografia, dalle rappresentazioni dell’universo alla microbiologia. Diversi progetti di Studio Fludd sono nati proprio guardando queste immagini e fantasticando su possibili analogie tra mondi apparentemente distanti. Solo per fare alcuni esempi, “Gelatology” mette insieme il lento trasformarsi della terra con lo sciogliersi immediato del gelato, “Specimen” immagina un parallelismo tra la nascita di una cellula e la formazione dell’universo, “L’Albero” accosta a un testo poetico disegni direttamente ispirati a erbari scientifici. Anche il nome che abbiamo scelto deriva da un medico e alchimista inglese, Robert Fludd, i cui trattati contengono meravigliose incisioni che mettono insieme tutte le discipline del sapere umano». Sebbene il disegno è ed è sempre stata la disciplina con cui Caterina si relaziona principalmente, tra le sue diverse sperimentazioni, da qualche anno, la fotografia ha guadagnato un suo spazio. «In questi ultimi cinque/sei anni ho iniziato a guardare con maggiore attenzione anche al mondo della fotografia. Ho iniziato a fotografare con la macchina a pellicola di mio padre durante gli ultimi anni del liceo, affascinata dal mezzo, mio padre se n’era andato di casa e mi sentivo la naturale ereditiera di quell’oggetto. Fotografare mi sembrava molto più semplice che realizzare un disegno. Quando si fotografa il soggetto è già li, è un pezzo di realtà che si imprime nella pellicola in maniera quasi del tutto meccanica. Ho realizzato moltissime foto soprattutto gli anni in cui ho vissuto a Venezia, il colore cangiante dell’acqua, i dettagli scolpiti nel marmo, i bambini che giocano a pallone nei campielli, le gite in barca verso le isole lagunari, le spiagge degli Alberoni». Come per molti fotografi in Italia, e non solo, tra i riferimenti di Caterina troviamo il grande lavoro di Luigi Ghirri, come lei stessa ci ha svelato. «Sicuramente dentro di me c’era già presente, come in molti di noi, tutta la grande eredità di Luigi Ghirri, ma in maniera poco consapevole. Solo poi ho avuto modo di approfondirlo maggiormente. Mi è sempre interessato molto il tema della natura morta, quando fotografo oltre a Ghirri mi porto dietro anche la pittura di Morandi. Ricerco la stessa quiete, la stessa natura statica, fragile e riflessiva che hanno i quadri di Morandi. Recentemente sono stata molto impressionata dal lavoro della fotografa Jan Groover, di cui il MAST di Bologna ha curato una bellissima mostra lo scorso anno presso il Mambo di Bologna. Jan Groover si è dedicata al tema della natura morta in maniera molto approfondita e personale, partendo dagli oggetti che usava in cucina fino a costruire complessi set dalle composizioni surreali. Non a caso anche lei ispirata dal lavoro di Giorgio Morandi, durante la visita ho notato con grande sorpresa che sia Morandi che Jan Groover preparavano i loro set verniciando gli oggetti che mettevano in scena. Non solo i colori e la composizione erano perfettamente studiati ma anche gli stessi oggetti venivano manomessi, trasformati, proprio come succede in un set». In tale mix di ispirazioni, che sono alla base creativa delle sue sperimentazioni, come emerge molto limpidamente dalla sue parole e pensieri, Caterina ci tiene a sottolineare come per lei «pittura, fotografia, disegno e set scenografico sono vasi comunicanti, più interconnessi di quello che comunemente si crede». Proseguendo nella nostra chiacchierata, ci sorge spontanea la curiosità di capire e investigare il significato che ha per lei creare illustrazioni e come riesce a conciliare e declinare la sua pratica personale con il lavoro collettivo di Studio Fludd. «Disegnare è una pratica solitaria, riflessiva, che necessita di tante prove, scarti, ripensamenti, prima di arrivare ad un risultato soddisfacente. Sono molto lenta quando disegno, soprattutto se devo arrivare ad una tavola illustrata vera e propria. Nonostante la fatica, credo che la possibilità di immaginare tutto all’interno di un foglio bianco sia il massimo grado di libertà che possiamo avere. Credo che sia un momento educativo per me, è sempre un momento di scoperta, di apprendimento, e a volte, sì, anche di godimento. Il set design è una attività senz’altro più collettiva che combina, nel nostro caso, una ricerca accurata di materiali a una buona dose di improvvisazione. Il disegno supporta in molti casi la creazione di un set: dal bozzetto per visualizzare la scena, alla preparazione di specifici props (spesso sagome da ritagliare e colorare) o di determinati fondali da dipingere. E’ un momento più collettivo perché si crea assieme al fotografo una scena e il risultato è la sintesi di diversi modi di vedere. Non è sempre facile conciliare una ricerca personale con il lavoro collettivo, ultimamente con Studio Fludd stiamo lavorando a progetti sempre più complessi e lunghi nel tempo, quindi molte delle mie energie finiscono lì. Posso dire però che tutti i progetti che riguardano l’aspetto più specifico del disegno vengono affidati a me e questo è un buon modo per tenere testa e mani in costante allenamento».
Ci avviciniamo alla conclusione del nostro incontro e in chiusura ci incuriosisce conoscere maggiormente il processo creativo dietro i suoi progetti personali e la progettualità condivisa per quelli di Studio Fludd. «Gli anni di lavoro con Studio Fludd mi hanno permesso di sviluppare un metodo di ricerca sicuramente più solido di quello che avrei potuto sviluppare da sola. In genere si parte individuando un tema su cui lavorare, che si tratti di un libro, di un set, di un allestimento o di un’animazione. Si fa una prima ricerca di references e ci si da poi delle coordinate formali rispetto ad una direzione da approfondire. C’è spesso molto confronto sulla direzione da prendere, si fanno bozzetti, prove o si iniziano a cercare materiali. Come Studio Fludd ci piace giocare molto con il mistero e l’ambiguità di quello che si vede: ad esempio durante gli shooting spesso utilizziamo oggetti che in foto non sembrano quello che sono, oppure durante l’apertura di un evento abbiamo creato un banchetto commestibile dove il cibo veniva scambiato per una parte di allestimento. Ci interessa generare un senso di sorpresa, incredulità, in qualche modo anche un senso di magia, nonostante l’utilizzo di mezzi spesso molto semplici. C’è una frase che mi aiuta a definire la mia attitudine. È di John Cage che Sara ha utilizzato per il titolo di un progetto “Poor tools require better skills”, provare ad utilizzare mezzi minimi, spesso poveri, per combinare qualcosa di bello.Nella mia ricerca personale invece rivolgo il mio sguardo verso questioni più autobiografiche, per esempio il progetto al quale sono più legata, “Birds of Paradise”, ha come tema principale la gonna, intesa come indumento della femminilità per eccellenza, inclusi i retaggi culturali che si porta dietro. L’installazione si compone di una parte audio composta da frammenti di interviste realizzate ad alcune ragazze, fotografie delle gonne indossate da quest’ultime e un’animazione frame by frame composta da disegni astratti ispirati al movimento fisico di una gonna. Anche se le interviste sono rivolte ad altre persone, quello che emerge dalle parole ha a che fare anche con la mia esperienza intima, la difficoltà ad indossare una gonna come simbolo di un rapporto conflittuale con la propria femminilità. Cerco di affrontare i temi autobiografici con un restituzione che sia il più possibile poetica, che trascenda il mio vissuto personale e possa diventare parte di un vissuto comune».