È una domanda antica – ed irrisolta – quanto la storia della civiltà umana quella che dà il titolo alla 17 edizione della Mostra Internazionale di Architettura di Venezia: How will we live together?
Ed è una domanda che arriva in anni in cui la condivisione degli spazi, della città, del “sistema mondo” come lo abbiamo inteso, ma soprattutto immaginato per il futuro, è messo in discussione da qualcosa di invisibile ed intoccabile.
La biennale di Architettura di Venezia, aprirà al pubblico sabato 22 maggio e sarà visitabile per sei mesi, fino al 21 novembre 2021 è una edizione rimandata di un anno e la cosa probabilmente ci rende più consapevoli di questa domanda. Nel marzo scorso, ad inizio pandemia, fu l’architetto Renzo Piano, di fronte alle città deserte ed al suo Centre Pompidou chiuso al pubblico, proprio quel museo che sarebbe dovuto essere “a place for all people”, a dire che ci sarebbe stato bisogno di una profonda ricostruzione, e che ci sarebbe stato bisogno di molti, bravi architetti.
Questa volta, a differenza di settant’anni fa quando l’umanità usciva dai conflitti mondiali, non sono gli edifici a dover essere ricostruiti. È il modo in cui immaginiamo di poter vivere insieme il cuore del problema. “Abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale. In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme” ha scritto nel suo statement Hashim Sarkis, curatore della Biennale.
È l’epoca, questa, in cui sono entrate in crisi le discipline e le definizioni, insomma tutte le specializzazioni verticali chiamate a risolvere i problemi. I problemi sono così complessi ed in grado di interagire su più livelli che solo collaborazione tra le discipline può dare una soluzione, o per lo meno una risposta. È l’epoca in cui sono di nuovo urgenti i ponti tra scienza ed umanesimo. “I partecipanti alla 17. Mostra Internazionale di Architettura stanno collaborando con altri professionisti e attori” continua Hashim Sarkis “artisti, costruttori, ingegneri e artigiani, ma anche politici, giornalisti, esperti in Scienze Sociali e cittadini comuni”.
In tutto questo, l’architetto può diventare “custode del contratto spaziale”, come lo ha definito Sarkis. La domanda “come vivremo insieme?” è la stessa che si ponevano i babilonesi nel costruire la loro torre, l’ha posta Aristotele attribuendo al complesso sistema della città una possibile risposta, ma era anche alla base delle grandi rivoluzioni del ‘700, quella francese e quella americana. Si può dire che muova anche i moderni imprenditori che tentano la nuova conquista dello spazio, da Elon Musk a Jeff Bezos? Una civiltà interplanetaria è la soluzione che propongono. Non di exit strategy, ma di soluzioni stiamo parlando, ed in effetti la domanda how? come? è il terreno su cui lavorano architetti e progettisti di ogni epoca.
L’edizione 2021 della Biennale conferirà il Leone d’Oro Speciale alla Memoria a Lina Bo Bardi, architetta italiana naturalizzata brasiliana, simbolo di questo continuo atteggiamento interdisciplinare. Architetta, designer, giornalista, editore di riviste, si è spostata tra l’Italia (scuola Gio Ponti) ed il Sudamerica, utilizzando la bussola della progettazione come antidoto – vaccino? – alle difficoltà. Negli anni segnati da dittature e conflitti mondiali, la sua forza è stata la capacità di perseverare – con ottimismo – nella creazione di visioni collettive. Together, insomma, dalle città, alle periferie, ai luoghi della cultura, ai nuovi territori spaziali.
Images courtesy Biennale di Venezia 2021
1 – As emerging communities, Fieldoffice Architects
2 – SKULL studio + MOLOARCHITEKTI
3 – Qua Vadis, Addis? – Conflicts of Coexistence
4 – Lina Bo Bardi at a work meeting at MASP, Instituto Bardi / Casa de Vidro*, Fonseca
5 – Casa de Vidro interiors, Leonardo Finotti
6 – Casa de Vidro, Instituto Moreira Sales + Instituto Bardi, Francisco Albuquerque