INTERVIEW

«Amo creare fin da bambina, mia madre mi ha guidata da sempre in questo e nutrito il mio spirito creativo. Quando ero più piccola disegnavo moltissimo, era il mio mezzo prediletto. Appena iniziata l’adolescenza ha preso piede l’interesse per la fotografia, credo principalmente come mezzo di confronto con me stessa, prima che con il resto del mondo».

Come ci ha confidato, Camilla Glorioso è cresciuta insieme alla sua creatività grazie alla quale ha definito mano a mano la sua identità personale e professionale. «Da ragazzina scattavo foto a me stessa e ai mei amici per definirmi, creare un’immagine di me e costruire quella primissima immagine pubblica a tutto tondo di cui si intravedevano i barlumi sui social media: chi sono, con chi sto, dove andiamo. Per me quel tipo di immagine aveva un legame molto forte con la fotografia di moda, eppure aveva già un aspetto puramente documentario, una sorta di perenne street casting. Non a caso in quel periodo i miei riferimenti erano i magazine che si trovavano all’edicola di paese: Vogue Italia, Elle, Marie Claire, Vogue France (se era un mese fortunato)». Nel tempo, indagando e documentando sempre più a fondo le potenzialità espressive del linguaggio fotografico, Camilla ha riconosciuto una vicinanza sia nella fashion photography che nel reportage, trovando nel mix dei due il linguaggio che oggi la contraddistingue:  «a pensarci è interessante come, crescendo, questi ingredienti base di cui quindici anni fa si intravedevano solo i semini, siano cresciuti insieme a me trasformandosi ma rimanendo pilastri cardine della mia pratica. Oggi il soggetto degli scatti non sono quasi mai io, eppure sono sempre lì: il mio paese, i miei cari, il mio rapporto con gli oggetti e le persone. C’è ancora, nonostante il mio lavoro ora sia più editoriale e documentario che fashion, un legame stretto con la dimensione antropologica della moda come osservazione dell’immagine che le persone scelgono di darsi, del potere catartico delle sfilate quotidiane per la strada. La mia pratica è tutt’ora una fotografia che parte da esperienze di vissuto personale, in qualche modo un diario ed una richiesta a chi guarda i miei scatti o a me stessa di “vedermi”, “capire cosa intendo”»

In questa continua ricerca, il linguaggio di Camilla si compone di diverse ispirazioni, una costellazione di stimoli e punti di riferimento visivi rintracciabili, chi con maggiore evidenza e chi meno, nei suoi progetti personali e commissionati. «Fino a qualche anno fa riempivo taccuini e taccuini di note, opere viste in mostra, nomi di artisti ma purtroppo è una pratica che ho perso. Nell’ultimo anno però, vedo che in qualche modo le ispirazioni arrivano da medium diversi rispetto alla fotografia o l’arte contemporanea. Lavorando molto sugli aspetti emotivi del mezzo e cercando di raccontare le persone e gli oggetti attraverso le immagini, guardo con interesse e curiosità tutto quello che parla di human behaviour, in particolare parate, vignette e illustrazioni. Le situazioni di piazza, i momenti in cui le persone sono in tante e impegnate in un’attività collettiva, mi ipnotizzano: mercati, stadi, parate, dimostrazioni. Sono momenti in cui posso solo osservare ed essere un puntino nella massa, nessuno si accorge se, come e chi sto riprendendo». Nonostante il palcoscenico del mondo sia la più importante fonte d’ispirazione per il suo lavoro, diversi sono gli artisti, tra illustrazione e fotografia, che con il loro lavoro alimentano la sua immaginazione: «a livello di illustrazione la mia principale reference al momento è Kimberly Elliott (@linesbyher) che raccoglie un’altra nuova fonte di ispirazione, il colore. Non ho mai fatto caso alle potenzialità di linguaggio nell’uso del colore e di palette all’interno di un’immagini prima di un paio di anni fa, raccontavo solo quello che vedevo. Ora ne sono ossessionata, nella pittura, nell’illustrazione, nel design. Ogni volta che vedo un’illustrazione di Kimberly sono travolta da forme e combinazioni di colore perfette e messaggi così precisi che ogni volta penso “oh God, so true”. Big fan girl. Altre reference sono Worry Lines e Anjali Chandrashekar. Mi piace la semplicità del segno e la sintesi totale che si trova in questo tipo di immagine, rappresentazioni perfette dell’umano attraverso poche linee e parole. Fotograficamente per me è sacro il lavoro di Luigi Ghirri, leggo e rileggo le “Fotocronache” di Munari ed amo i libri in cui i grandi documentaristi raccontano la nascita degli scatti più iconici, come “Le Regole del Caso” di Willy Ronis. Professionalmente, tra i contemporanei, amo il lavoro di Irish Humm; ho sempre pensato mi affascinasse per i soggetti e i tagli, ma forse in realtà è per il colore. Pat Martin e Max Miechowski per il ritratto, di quest’ultimo ho adorato in particolare la serie fatta per Liberation sulla processione per la morte di Queen Elizabeth, per tornare alla mia ossessione per le parate come fonte di ispirazione costante, è sicuramente la commissione che avrei desiderato prendere io. Ultima costante ispirazione fotografica è Emily Keegin (@emily_elsie), geeking super hard sulla fotografia come medium, sul suo profilo seziona scelte di layout, riesce a ribaltare come un calzino le scelte fotografiche di celebrities, giornali e brand facendo riferimento alla storia della fotografia e a dettagli tecnico-stilistici che tornano in auge o diventano trend (the grey backdrop per esempio). Nell’ambito editoriale invece, un libro illuminante che ho letto di recente è “The Social Photo: On Photography and Social Media” di Nathan Jurgenson mentre regolarmente, come cibo per la mente, consulto il magazine Vestoj».

Sebbene siano molti i suoi punti di riferimento, nel suo processo creativo la componente personale gioca un ruolo fondamentale, tradotta nelle sue immagini sia da degli elementi vicini alla documentazione ma ultimamente, sempre più spesso, anche in forme astratte. «Quasi tutti i miei progetti partono da un’esperienza personale, uno sguardo verso l’interno, cosa che a volte vedo come una grande forza, a volte come una terribile debolezza. Una grande forza perché parlo di ciò che conosco. Mi ispiro alle domande che mi pongo, alle esperienze che vivo e ciò che vedo direttamente intorno a me traducendolo fotograficamente, a volte in maniera più documentaria, sempre più spesso cercando l’astratto. La ricerca dell’astrazione forse arriva da questa sensazione di debolezza: parlare di sé, della propria eredità culturale, del proprio percorso ed in generale del paesaggio emotivo che fiorisce e sfiorisce dentro di sé con il passare degli anni, cercando di tradurlo attraverso immagini di oggetti, luoghi e persone, a volte sembra auto-celebrativo e riduttivo allo stesso tempo. A volte mi chiedo se quello che fotografo sia rilevante per qualcuno, o sia solo una nuova versione di un journal, non scritto, ma visuale. Per questo credo che sempre più spesso i miei lavori di ricerca personale mescolino documentario ed astratto, per cercare di rendere più malleabili quelle linee marcate che legano la mia pratica così strettamente alla mia esperienza personale e forse rendere le mie immagini più universali. Ora come prima, due cose restano fondamentali nella mia pratica: il rapporto con l’immagine come oggetto, che sia d’archivio o digitale; e la combinazione di immagini, per me le storie si costruiscono nello sguardo d’insieme, linee, forme e colori raramente funzionano se uno scatto è estratto dal progetto a cui appartiene».

In conclusione dell’intervista, chiediamo a Camilla Glorioso cosa secondo lei sia un’immagine  e quali storie o messaggi  ha il potere di comunicare piuttosto che altre forme espressive. «Per me un’immagine è prima di tutto un oggetto. Il mio legame con la fotografia è da sempre strettamente connesso con l’archivio e la storia personale o collettiva che l’oggetto-immagine evoca tanto attraverso quello che vi è rappresentato quanto attraverso la materia che lo compone: la carta, il tipo di stampa, la busta o l’album in cui viene conservato. Questo vale anche per il digitale, sono estremamente affascinata dalla fisicità dell’immagine anche quando è costituita da pixel o proiettata attraverso uno smartphone. C’è un mondo contemporaneamente vero e falso nelle immagini, c’è una dimensione tra realtà e rappresentazione permeabile e piena di potenzialità, che permette sempre di raccontare documentando ed inventando allo stesso tempo».