«Ho fatto un percorso che definirei molto spontaneo, dove a guidarmi sono stati passione e istinto. Già al liceo era chiaro che avrei studiato filosofia, perché era il territorio che mi faceva vibrare di più, ero piena di domande sull’esistenza e assetata di quella forma di sapere».
Il retroterra formativo di Giuditta Vettese – set designer, ricercatrice e artista – trova le sue radici non solo nella sua formazione universitaria, con un percorso iniziato a Milano e poi proseguito alla Sorbonne di Parigi dove ha studiato filosofia estetica e culture visuali, ma anche nell’ambiente familiare: «Nella mia storia c’è sicuramente una confidenza con il mondo delle immagini: i miei genitori sono giornalisti televisivi e sono cresciuta in mezzo ai quadri d’arte contemporanea della collezione di mio zio. Ho conseguito una laurea triennale specializzandomi in estetica con una tesi sullo sguardo e sul potere delle immagini, successivamente un master di ricerca sul legame fra corpo ed esperienza spirituale. Nei primi anni dell’università mi è capitato di iniziare a fare da assistente nel campo del set design, senza neanche sapere bene cosa fosse». Ed è proprio in quest’ultima pratica, che Giuditta oggi ha trovato il canale giusto per dare concretezza alla sua vasta ricerca estetica: «Il set design ha incontrato l’inclinazione alla creatività manuale che ho avuto fin da piccola, e quando mi sono ritrovata al bivio fra una vita molto teorica – il dottorato – e una vita più pratica ho capito che volevo proprio usare le mani. Così poco dopo ho implementato l’attività di set designer, mettendomi in proprio e iniziando a studiare e sperimentare varie tecniche. Fin da subito ho sentito l’impulso di elaborare la ricerca di un linguaggio che fosse mio con dei progetti al di fuori del lavoro commissionato. È una ricerca che nutre la mia professionalità e nel contempo sta prendendo la forma di un percorso di espressione molto prezioso».
Mano a mano che ci addentriamo nel vivo del nostro scambio e cerchiamo di approfondire la sua ricerca, le domandiamo quali sono i suoi punti di riferimento estetici e culturali da cui prende forma il suo immaginario: «Se penso a dove cerco ispirazione, la risposta che mi viene più immediata è che da quattro anni lo faccio nel tango. Questo è per me una specie di vita segreta – qualcuno ha detto che “il tango è un segreto che si balla in due”. È un momento di rigenerazione e di scarico mentale importantissimo che avviene nella fusione tra i corpi e la musica. Quando vado a lezione o a ballare dimentico tutto e mi ritaglio questo spazio di avventura, di incontro, di libera espressione, di sensuale tensione che si libera tra i corpi nell’affidare il proprio peso l’uno all’altro cercando continuamente l’equilibrio, in questa comunicazione che avviene attraverso il ritmico e puro slancio del corpo: dei piedi, delle gambe, delle pance, delle mani…ecc . Il corpo è per me la più grande risorsa di creatività. Il tango in questo senso è la mia pratica per nutrirlo». Oltre al tango, diversi spunti provengono anche dal mondo dell’arte «I miei maggiori punti di riferimento nel mondo delle arti visive hanno a che fare con immaginari composti di colore, materia e sensazione. Mi viene in mente la mostra di Pipilotti Rist intitolata Parasimpatico, che nel 2011 aveva trasformato l’ex cinema Manzoni di Milano ed è una delle mostre di cui ho il ricordo più vivido. I suoi lavori multimediali come “Lobe of the Lug” o “Sip my ocean”, così immersivi e sensuali, uniscono l’organico con l’onirico, l’emozione, l’assurdo, la tensione continua fra naturale e artefatto, la ribellione, li avevo trovati pieni di vitalità e potenza. Penso anche al lavoro di Anicka Yi e all’estetica metamorfica dei suoi lavori con il sapone o con i batteri, che per me sono affascinanti dispositivi di confronto con la materia e con il tema dell’amorfo, che mi è molto caro. Mi viene in mente anche l’opera del fotografo Wolfgang Tillmans di cui mi piace l’istintività nella scelta dei suoi soggetti; ritrovo nel suo lavoro dei bellissimi studi cromatici, un’accurata riflessione sull’imprecisione e sul non canonico. Trovo la sua pratica un bell’esempio di spontaneità e dell’idea che il mondo sia una fonte inesauribile d’ispirazione visiva. Ammiro Mark Rothko e a Yayoi Kusama per il loro stile, per i loro studi cromatici e formali, per l’adesione a una sorta di unico principio cardine – l’ossessione e la fobia per Kusama, la stratificazione e la ricerca spirituale per Rothko – intorno a cui hanno ciascuno sviluppato le loro variazioni tenendo fede ad un linguaggio estetico trovato e ripetuto instancabilmente. La lista potrebbe continuare due pagine ma questi sono i primi che mi vengono in mente».
L’elemento naturale, incontrato nei suoi molti viaggi, è un’altro importante elemento d’ispirazione dal quale Giuditta, come ci ha confidato, trae ispirazione: «Mi sento affascinata dal mondo vegetale e animale, in cui d’altronde ho bisogno di immergermi a fondo in alcuni momenti e che poi ho anche studiato un po’ – ho amato per esempio “La forma degli animali” di Adolf Portmann o gli studi sul mimetismo animale di Roger Caillois. Credo che questo bisogno di paesaggio e di elementi naturali sia legato anche al fatto che mio padre è un velista e ho passato tutte le estati della mia infanzia in barca. Le forme del paesaggio sottomarino sono impresse nella mia memoria emotiva: ho iniziato a fare immersioni a sei anni, poi qualche anno fa ho preso patente nautica e brevetto di sub. Ho fatto alcuni lunghi viaggi in passato che mi hanno cambiato la vita, sotto tanti aspetti, e di cui porto con me intensa memoria. Ho viaggiato a lungo in Messico girando un documentario sulle forme di attivismo femminista del Paese. È impossibile dimenticare i suoi colori, i paesaggi vasti e fortissimi, l’assurdità di certi aspetti della cultura e delle usanze messicane, al limite del surrealismo. Penso anche all’India, alla terra rossa del Marocco, alle giungle verdissime del sud-est asiatico e quelle colombiane, con tutti i loro abitanti di varie specie, con tutte le loro atmosfere uniche. Credo che i viaggi mi abbiano insegnato più di tutto ad osservare, a riempirmi della vita che ci circonda, poliforme e cangiante, che in fondo penso sia sempre la più grande fonte di ispirazione. Da un po’ ho un album sul telefono che ho chiamato “mood”, dove raccolgo foto di tutto ciò che incontro e che mi colpisce a livello di palette, texture, composizione, soggetti, impatto di varia natura. È una collezione di input da sviluppare, e credo sia uno degli strumenti di lavoro che uso di più».
Nel proseguire la nostra conversazione ci incuriosisce chiedere a Giuditta come e quanto il suo lavoro artistico e gli studi accademici in filosofia influenzino e contamino i suoi progetti di set design. «Occuparmi di set design per me significa concorrere con la mia creatività e manualità alla produzione di immagini che popolano il nostro mondo visivo, immagini che sono socialmente contestualizzate inserendosi nell’estetica mainstream. Trovo questo aspetto molto motivante. Fare questo lavoro mi porta anche a incontrare tante realtà diverse e a sperimentare tecniche e modi di costruire, a fare una continua ricerca dei materiali più imprevisti e di fornitori. L’attività di set design si concilia con il mio lavoro curatoriale, con i miei studi in filosofia e con i miei più recenti progetti artistici nella misura in cui ogni cosa influenza l’altra e le informazioni passano da un campo all’altro come l’acqua in vasi comunicanti, divenendo input che trovano nuovi sviluppi a seconda del territorio interessato. Non sono mai stata capace di fare una cosa sola, sono per inclinazione un essere poroso e sincretico. Credo che entro certi limiti, metodi e pratiche eterogenee possano coesistere, arricchendosi l’un l’altra, trovando più o meno una forma di confluenza, anche se a volte è indubbiamente faticoso tenere tutto insieme e c’è il rischio di non riuscire a concentrarsi sulle cose».
Al termine del nostro scambio, infine, le chiediamo se ci sono o meno dei punti fermi nel suo processo creativo e se ci sono temi, storie o concetti che più di altri le piace veicolare: «Le mie parole chiave sono corpo, colore e sensazione. Mi piace creare immagini, oggetti o impressioni che abbiano un forte impatto sensoriale. Non so se ho dei punti fermi, ma credo che quello che fino ad ora è successo è che sono sempre partita da visioni o incontri spontanei rendendoli matrici dei miei progetti di ricerca, cercando poi di canalizzarli con metodo e razionalità andando a scremare, a indagare, a cercare una forma. Ho un magazzino di archivio di oggetti e materiali che è una grandissima risorsa per il mio lavoro».