La scelta del proprio campo d’espressione, per molti artisti, spesso non è immediata e diretta. In alcuni casi si configura come un percorso che si definisce con il tempo, prendendo molteplici diramazioni. Questo è il caso anche di Marco De Ieso, fotografo e artista visuale di base in Umbria, che alla nostra domanda d’esordio, quando gli abbiamo chiesto del perché abbia scelto la fotografia come mezzo espressivo, ci ha risposto: «Quando mi viene rivolta questa domanda si apre sempre in me una riflessione molto curiosa, direi in evoluzione. La risposta spesso si arricchisce di elementi del mio percorso ma ogni volta, riesco a ricordare che la produzione di artefatti visivi è stato il mio primo mezzo di comunicazione con il pubblico esterno. Se devo inquadrare un periodo, dove tutto ha avuto inizio, sicuramente è quello a cavallo tra il 2015 e il 2016. Mi sono avvicinato alla fotografia per step, prima il disegno, poi la scrittura ed infine quel misterioso oggetto che ferma il tempo in dei margini tangibili. Parlo di circa otto anni fa, è lì che ho iniziato in maniera consapevole a capire che poteva essere utile per me raccontare delle anomalie nello spazio tempo. Arrivo da un contesto sociale che si rifà all’epoca contadina e in qualche modo ho sentito l’esigenza di gridare qualcosa di ancora non definito, l’immagine era l’unico mezzo che mi incuriosiva e mi permetteva di farlo senza troppi schemi. La mia non è una ricerca e una narrazione nostalgica, non cerco quello, piuttosto è un tentativo di elevare e dare spazio alle riflessioni che può scaturire da una vita passata, certe usanze e certe tradizioni che ormai, purtroppo, sono nell’oblio insieme a tanti altri sentimenti. Archiviare, quasi in maniera vouyeristica: oggetti, foto, pagine di libri strappate e pellicole che ormai sovrastano i sei metri cubi in cui mi ritrovo ad organizzare il mio tempo».
La cultura contadina del centro Italia, come lui stesso ci ha confidato, è il cuore da cui parte la sua ricerca. È da lì che prende forma le sua ispirazione, la curiosità e la voglia di confrontarsi con l’essere umano e le storie di un’altra epoca. «Mi piace molto restare solo, a contatto con le strade in cui passeggio, con i vicoli dei piccoli paesi e dei piccoli borghi. L’ispirazione arriva da lì, dalla contemplazione di una scena bloccata e incastrata nel tempo, dalla reiterazione di concetti, di movimenti, di racconti di persone comuni incontrate per strada. Arriva dal voler raccontare come l’uomo si è rapportato con lo spazio nel tempo, e come lo sta facendo al giorno d’oggi. Proprio per questo motivo da qualche anno, in maniera quasi paradossale, escludo la figura umana dalla mie fotografie.
Negli ultimi due anni, in particolare, questa propensione ad indagare il rapporto dell’uomo con il suo spazio, antropico e naturale, è al centro di alcuni approfonditi studi storici da parte di Marco che lo stanno aiutando ad evolvere il proprio linguaggio espressivo. Il suo campo d’indagine è ampio ed esteso, e abbraccia lo studio dell’archeologia, dei riti magici e credenze popolari del nostro Paese, delle apparizioni religiose, dei libri antichi, del fenomeno novecentesco del brigantaggio fino ad arrivare al misticismo degli dei dell’antica Grecia. L’indagine di queste tematiche e della loro iconografica e iconologia, stanno man a mano influenzando il suo modo di costruire le immagini, tradotto spesso nell’inserimento di un soggetto poco identificabile che tende ad una pura astrazione simbolica. «In questo momento lo studio molto i riti e le usanze di un tempo nel Sud Italia, l’antropologia e l’etnografia si stanno facendo strada dentro la mia vita. Sto analizzando a fondo Luigi Di Gianni ed Ernesto De Martino per iniziare a costruire un progetto che ho parcheggiato da un podi tempo. Nel mio percorso ho cercato di educare il mio pensiero e gusto, tenendo il focus principalmente sul cinema e sulla letteratura, lasciando da parte per un momento i grandi autori della fotografia. Sia il mezzo video che il libro mi danno la possibilità di vagare con la mente, di costruire un pensiero che magari il regista o lo scrittore, in maniera inconsapevole, non hanno costruito ma che hanno inserito nella loro opera. Il cinema e la scrittura in alcuni casi sono il “non detto” ed è lì che c’è bisogno di indagare».
Il cinema, come già introdotto da De Ieso, è un’altra componente di rilievo nella sua ricerca espressiva. «Nel cinema Antonioni con il suo linguaggio mi ha colpito fin da subito, in particolare Blow Up, un film che ruota appunto intorno al medium fotografico. Un innovatore, e la trilogia dell’incomunicabilità ha cambiato il mio modo di interpretare il vero. Se Antonioni è stato colui che ha influenzato il mio percorso narrativo, registi come Tarkovskij, Pasolini, Olmi, i Fratelli Taviani e Bertolucci hanno apportato alla mia estetica delle regole fondamentali, dal trattamento delle luci e delle ombre fino alla scala cromatica delle stampe. In ambito contemporaneo forse i più importanti che riconosco essere i miei riferimenti sono: Pietro Marcello, Alice Rohrwacher, Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi».
Ma non solo. Anche i grandi nomi della fotografia e della musica vanno a completare il puzzle del suo campo di ricerca. «In fotografi come Ghirri, Guidi, Castella, Monti e altri, ci sono tornato solo in un secondo momento, quando ho sentito il bisogno di studiare come mai loro avessero scelto di indagare lo spazio circostante e il modo in cui l’avevano fatto. Da lì sono tornato a studiare fotografi italiani e stranieri. Ci sono anche molti fotografi contemporanei diventati un mio punto di riferimento e di cui apprezzo molto il lavoro e l’approccio all’immagine. Tra questi: John Divola, Samuel Bradley, Joachim Schmid, Ilyes Griyeb, Esko Männikkö, Nigel Shafran, Dinu Li e molti altri. Di quella grande lista, mi sento di inserire anche mostre, case editrici e musica. L’arte contemporanea e l’editoria adesso fanno parte della mia vita, mi sono laureato in Graphic Design e lavoro nel mondo della carta stampata. Portando avanti questo percorso l’interazione con queste discipline e la loro metodologia, la ritrovo anche nella mia fotografia in certe linee e certi schemi di composizione. La musica, invece, è forse la benzina che tiene in moto tutto il motore di cui sopra ho parlato. Non potrei vivere senza. In particolare i miei ascolti vanno verso il genere Ambient, Drone e l’elettronica sperimentale. Cito solo tre artisti fondamentali per me: Philip Jeck, Fennesz e William Basinski. Ora però sono concentrato sulla musica di Caterina Barbieri. Questa torna ad essere quasi sempre il mio viaggio mentale perfetto. Ho perso il conto di quante volte ho ascoltato il suo album Patterns Of Consciousness. Ogni volta entro in uno stato assorto, quel ritmo pulsante ed elettronico agisce nel mio cervello aumentando la concentrazione e l’attenzione sull’azione che sto compiendo».
Continuando nel nostro dialogo, dopo aver scandagliato le opere e gli artisti che più influenzano la sua pratica espressiva, chiediamo a Marco quali sono i temi più ricorrenti e, se ci sono, quali sono i punti fermi nel suo processo creativo. «Alla base del mio processo creativo c’è la ricerca quasi morbosa e lo studio delle tematiche che poi andrò ad affrontare. Questa è una fase molto importante per me. È la preparazione utile alla creazione dell’artefatto. Spesso lavoro a foto singola e non a progetto o a serie. Preferisco concentrarmi e dedicare del tempo ad una sola foto, è un esercizio che negli anni si è consolidato sempre di più nella mia pratica. Il progetto fotografico forse è un qualcosa che ad un certo punto arriva da solo, ed è la somma di una serie di fotogrammi che si sono accumulati in un periodo dove magari mi sono concentrato su una singola tematica. La produzione nel campo per me è la costruzione mentale della scena e la sua documentazione».
In conclusione della nostra intervista, chiediamo a Marco quale valore ha per lui l’immagine e cosa, rispetto ad altre pratiche, può trasmettere o raccontare. «L’immagine per me è un oggetto che definisce una storia, un periodo. La traccia che documenta la vita che scorre. Ormai passata. Ho deciso di esprimere la mia visione tramite l’immagine proprio per questo motivo qua. Ogni fotografo, anche in maniera inconsapevole, sta raccontando qualcosa di sé che qualcuno sentirà affine con la propria vita. Credo che sia questo il potere immenso dell’immagine. Essa può veramente trasmettere e raccontare fatti, emozioni, stati d’animo. La sua fruizione è libera, non c’è da capire qualcosa per forza, perché ognuno di noi, guardando un’immagine, assocerà ad essa qualcosa che arriva dalla sua vita passata».