«Il mio percorso formativo e creativo ha avuto inizio al liceo, nonostante non abbia frequentato un liceo artistico ma quello classico. In quegli anni ho iniziato a comprendere il significato di linguaggio artistico, inteso come espressione personale legata ad un’urgenza espressiva, e ad osservare come gli uomini nel corso della storia abbiano sempre trovato un modo per riuscire a trarre da esperienze personali dei messaggi universali. Studiare i testi antichi e la filosofia mi ha fatto capire di non essere solo, che qualcun altro nei secoli precedenti aveva vissuto quello che stavo vivendo io, e che a volte è indispensabile guardarsi indietro e trarre insegnamenti e ispirazioni da vite passate».
Inizia così la nostra intervista ad Enrico Caputo, giovane stylist e creative director emergente di base a Milano. Come ci racconta lui stesso, decide di trasferirsi dalla provincia calabrese al capoluogo lombardo dove inizialmente « per un anno ho frequentato la facoltà di Beni Culturali che mi ha dato degli ottimi strumenti per analizzare criticamente il presente. Durante quell’anno però ho iniziato a maturare la consapevolezza di voler mettere io le mani in pasta, prima di quel momento avevo sempre indossato le scarpe dello spettatore, di chi guarda, mastica, metabolizza e critica l’arte. Dopo aver conosciuto quello che attualmente è uno dei miei migliori amici, di professione fotografo, ho iniziato a frequentare i set e ho avuto un riscontro pratico anche su cosa significasse fare lo stylist. Da piccolo avevo provato prima a disegnare, poi a dipingere e suonare il violino ma queste pratiche non sono mai diventate delle vere “ossessioni”. Lo styling, la direzione creativa e in generale la creazione e ideazione di immagini, al contrario, lo divennero immediatamente. In seguito ho lasciato Beni Culturali per iniziare a frequentare lo IED. Qui ho potuto sfruttare quel tempo per assorbire il più possibile e cercare di sperimentare, senza limiti, mettendo in discussione i punti fermi, le certezze e le referenze per favorire un naturale percorso di evoluzione creativa e di formazione di un mio gusto personale e autoriale, a cui ancora oggi lavoro giorno dopo giorno».
Mentre iniziamo ad approfondire l’urgenza creativa di Enrico, ci viene spontaneo partire dalle basi e chiedergli da dove prende forma la sua ispirazione; «Potenzialmente tutto ma in particolare ci sono delle figure, in diversi campi artistici, che senza dubbio hanno avuto un impatto sulla mia formazione. Nel caso specifico della musica, sono una di quelle persone che non ascolta un unico genere musicale, ho sempre ascoltato di tutto. Ho diverse playlist che uso per diverse circostanze, ma in quella in cui raccolgo tutta la musica che per qualche motivo mi commuove e mi ispira si passa con facilità da Ciajkovskij a Nicki Minaj, da SOPHIE a Pino Daniele. In fotografia ammiro il lavoro, ad esempio, di Bruce Gilden, Kristie Muller e Niccolò Berretta con il suo progetto Stazione Termini. Invece tutte le referenze visive che mi ispirano, anche solo grazie al loro riaffiorare tramite i ricordi nella mia mente, sono tutte accomunate da un fil rouge: lo stile grottesco. Questo probabilmente ha influenzato moltissimo quella che è la mia piccola produzione di immagine ad oggi, ma sopratutto la costruzione del mio gusto nei confronti dell’arte in generale. Più passa il tempo e più mi rendo conto che quello che mi piace ha sempre un pizzico di grottesco, di sbagliato, di imperfetto, ma allo stesso tempo di umano. Gli artisti che mi influenzano maggiormente credo che siano Picasso, dal quale ho compreso per la prima volta cosa volesse dire provare un disagio interiore così grande al punto da portarlo a creare un linguaggio visivo nuovo mai visto prima. Da lui ho imparato l’importanza di avere un punto di vista personale, di non seguire la corrente ma piuttosto di fermarsi, di pensare, studiare e poi agire. Paul McCarthy, Oliviero Toscani, i fratelli Chapman e Charlie White, li raggruppo perché tutti per motivi diversi mi hanno shockato in un primo momento, per poi farmi entrare completamente nel loro universo. Grazie a loro ho capito che l’arte può davvero essere politica e che non ha regole. Il cinema ha avuto ed ha tutt’ora un ruolo fondamentale nella mia vita; credo di aver vissuto i momenti catartici più profondi ed emotivi della mia vita grazie al cinema. Da grande estimatore del cinema italiano, i pilastri estetici che mi influenzano sono senza dubbio Paolo Sorrentino, Dario Argento e Federico Fellini: i colori e le musiche di Argento, la magia di Fellini e i personaggi dipinti da Sorrentino resteranno per sempre scolpiti nei miei occhi e nelle mie orecchie. Sarà magari banale, ma credo che la mia più grande fonte di ispirazione sia la gente per strada. Osservare come le persone utilizzino i capi nella loro vita quotidiana mi affascina, come stratificano i vestiti, il no sense degli abbinamenti, le lunghezze sbagliate, la loro attitude, il modo in cui abbinano diverse stampe fra di loro ma che, alla fine, funziona. La moda non vive solo sulle passerelle, anzi, gli escamotage di styling più interessanti li ho visti ai clienti del bar sotto casa. Anche i meme e tiktok ormai sono tra le fonti necessarie per la mia ricerca estetica, perdersi nei meandri del perfetto e terrificante algoritmo di Tik Tok regala molte sorprese. Ma alla base di tutta la mia ricerca, c’è la noia, parte tutto da lì, senza la noia non può nascere la creatività».
Questa lunga serie di reference, sono la base dalla quale Enrico costruisce il suo mondo visuale utilizzando principalmente la pratica dello styling. «Fare styling vuol dire tutto e vuol dire niente. Per me, ad oggi, significa comunicare e creare attraverso due operazioni “artistiche” in una. La prima, il vero e proprio styling, usando i capi sul corpo considerandoli come simboli carichi di significati e valori, mixandoli, distruggendoli o esaltandoli, comprimendo o divorando il corpo, seguendo o non seguendo costrutti sociali, logici e/o estetici: considerare il capo come un elemento con un suo potere estetico e farlo interagire con il corpo. La seconda, la direzione creativa, la regia della costruzione dell’immagine fotografica, dalla singola foto al più complesso e articolato degli editoriali, lo sviluppo di concetti e storie da trasformare in immagini è la pratica che stimola maggiormente la mia fantasia e il mio spirito critico. Avere la possibilità di tradurre in fotografie reali qualsiasi potenziale immagine che possiamo pensare mi sconvolge ogni giorno. Non dimentichiamo che fare styling, in generale, vuol anche dire imporre il proprio “stile”, la propria estetica personale, ma è un qualcosa che personalmente al momento non interessa particolarmente. Piuttosto preferirei essere riconosciuto per il sapore generale dell’immagine, di ciò che ti trasmette e il potere visivo che possiede, perché d’altronde l’aspetto più bello ed affascinante della moda è il suo potere sociale. La moda è sempre stata fotografia del tempo in cui viviamo e di conseguenza può essere uno strumento per criticare ed analizzare il contesto sociale corrente, di conseguenza ti direi che con lo styling si possono comunicare tutte le storie e i concetti che vogliamo, si può raccontare di sentimenti, di cronaca, di politica. In sintesi direi che per me fare styling vuol dire proporre immagini, rielaborazioni visive di stimoli, riflessioni e suggestioni che ho sulla vita nel contemporaneo, che vorrei sottolineare quasi come monito, quasi come se fosse un continuo processo di raffinamento di ciò che secondo me ha senso analizzare per cercare di capire il contesto storico e sociale che viviamo oggigiorno».
Alla fine della sua intervista Enrico conclude dicendo: «tutto parte dalla ricerca, fondamentale per progettare. Cerco sempre di riuscire a ritagliarmi durante la giornata momenti per fare ricerca, banalmente fare ricerca può anche significare passeggiare e guardarsi intorno, lasciarsi andare alla suggestione di tutto ciò che ci circonda, l’architettura, le persone, i colori, i profumi, i suoni, tutto. Uno dei pilastri della mia ricerca, che si allontana dal mondo del visivo, sono i libri e gli articoli di giornale, come diceva Matisse, i grandi artisti in primis sono grandi teorici dell’arte. Per quanto riguarda la moda, è fondamentale per me seguire la scena dei nuovi designer emergenti o ancora studenti, poiché d’altro canto sono i giovani che spingono maggiormente dal punto di vista creativo e poi perché prevale in me ovviamente un senso di community e supporto, quasi assente in realtà nella scena milanese.
Per quanto riguarda i temi che mi piace esplorare, non so se posso parlare di veri e propri temi, ma più che altro mi piace l’idea di sviscerare sensazioni, sentori che tutti proviamo collettivamente ma che non sappiamo decifrare. Raccontare il presente sottolineandone e ricreando fenomeni che sono simbolici e sintesi della società in cui viviamo, estremizzandoli e rendendoli quasi come delle immagini totemiche che nel loro essere parlano del presente».