INTERVIEW

«Ho trascorso la mia infanzia all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Vilnius, dove mio padre, insieme a un paio dei suoi colleghi, ha fondato il dipartimento di fotografia, all’interno del quale insegnava fin da quando ero piccola. Sono cresciuta circondata da soluzioni per lo sviluppo e fissatori, luci di studio e asciugatrici per le stampe, che costituivano il mio ambiente quotidiano». La fotografa e artista Agota Lykute ha respirato il mondo dell’arte e della creazione artistica sia dalla sua infanzia in Lituania. Questo fu solo l’inizio di un suo lungo percorso di studi, che l’ha portata a studiare le arti visive prima nella città di Vilnius e successivamente a Parigi. «Ho frequentato la scuola di musica e sognavo di diventare pianista. Negli anni successivi, ho iniziato a frequentare la scuola d’arte e dopodiché sono stata ammessa all’Accademia di Belle Arti. Ho lavorato con installazioni, video arte e performance. Dopo la laurea, mi sono trasferita a Parigi per un master in arti visive, dove ho riscoperto la fotografia come mezzo per creare installazioni performative. Subito dopo il mio master, ho deciso di fare base in Italia, dove ho iniziato a lavorare come photo editor nell’industria della moda e del design, continuando nel contempo la mia pratica personale come fotografa». 

Il suo percorso, in cui si sono intrecciate varie discipline artistiche e sperimentato diverse forme espressive, è stato contaminato da diversi campi, come ci ha raccontato l’artista stessa: «Il cinema e la musica sono sempre stati parte integrante del mio mondo. Amavo frequentare i festival del cinema indipendente europeo e di altri paesi e guardare i film d’autore. Sin da quando ero piccola, cercavo di vivere la vita quotidiana come se fosse un film, questo era la mia fantasia. I film di Antonioni hanno successivamente influenzato le mie serie fotografiche; traevo i titoli per queste ultime dai sottotitoli che salvavo facendo screenshot di film come “L’Avventura” e “Il Deserto Rosso”. Dopo aver lasciato la Lituania, mentre ero a Parigi, ho riscoperto A. Tarkovsky, ho studiato la sua vita e la sua cinematografia, e sono rimasta particolarmente affascinata dal suo film “Lo Specchio”. Uno dei miei registi preferiti è sicuramente Nanni Moretti, specialmente per il suo film “Caro Diario”. Sono anche profondamente ispirata dalla cultura giapponese e dalla filosofia wabi-sabi e dalla loro musica: tra i miei compositori preferiti ci sono Ryuichi Sakamoto e il musicista Hiroshi Yoshimura. In generale, mi ispiro alle persone che creano con le loro mani, che sono appassionate e professioniste nel loro mestiere, che sanno lavorare la terra, l’argilla, appassionati di cucina, che collezionino arte ma anche che siano in grado di disegnare, scolpire, scrivere libri, tostare il caffè o comporre musica. Sono particolarmente affascinata da luoghi come gli studi degli artisti o degli artigiani, dove si riflette la loro vita quotidiana». Oltre ai vari riferimenti a cinema e musica, non possono di certo mancare riferimenti alla fotografia e sopratutto alla sua vita privata: «ammiro il lavoro di vari artisti, fotografi, scultori e pittori, tra cui François Halard, Hiroshi Sugimoto, Luigi Ghirri, Gintautas Trimakas, Mac Adams, Mindaugas Navakas, Silvia Bächli e Agnė Juodvalkyté. Quando ho perso mia madre cinque anni fa, ho capito che lei era la mia maggiore fonte di ispirazione. Era sempre elegante e aveva un grande gusto artistico. Amava documentare i suoi amici artisti e musicisti e i momenti della loro vita con la sua piccola point & shoot. Era una persona che riusciva a comunicare e trovare un linguaggio giusto con chiunque». Proseguendo la nostra chiacchierata le chiediamo, per comprendere più a fondo la sua pratica, che valore attribuisce come artista, all’immagine. «Per me, creare immagini significa creare memoria: cerco di documentare e ricordare, catturare un momento che non si ripeterà mai. È un modo per memorizzare, sistematizzare e catalogare. Mi piace organizzare le foto in serie in base a vari argomenti e osservare come questi argomenti siano collegati. Più di tutto, mi piace guardare le vecchie foto e immaginare come potesse essere allora, come vivevano le persone. Faccio foto perché qualcuno come me potrebbe guardarle tra cinquant’anni e forse sarà altrettanto interessato a vedere come vivevamo. La fotografia è per me un modo per documentare il mondo e allo stesso tempo mostrare come lo vedo io».

Durante il nostro incontro, ci colpisce particolarmente un’aspetto, ovvero il suo rapporto con luce, in particolare quella naturale, per chi come lei proviene da un Paese del nord Europa. «Un altro aspetto importante della fotografia per me è la luce. Vengo da un Paese in cui durante l’anno riceviamo pochissima luce solare diretta. Quando il sole inizia a splendere, ci animiamo, dimentichiamo per un momento ciò che stiamo facendo e ci fermiamo ad osservare i raggi di luce e le ombre. Anche se vivo in Italia da diversi anni, dove c’è molto sole, per me, come fotografa e artista, questo è un meraviglioso momento poetico, come una micro-epifania. È un momento fragile e un’opportunità per godersi il presente. Tutto inizia in modo molto intuitivo, registro ciò che mi sembra interessante. Poi archivio, classifico e dimentico le immagini, e poi le tiro fuori dopo qualche anno; le foto iniziano a collegarsi in serie separate, dettando un percorso per la mia ricerca successiva».

Terminiamo il nostro scambio, dove Agota ci spiega cosa significhi per lei creare immagini e in particolare cosa vuole veicolare attraverso il suo linguaggio: «vedo la fotografia come uno strumento, non come un risultato finale. La mia fotografia, secondo me, è più editoriale, racconta storie attraverso sequenze. Spesso non riesco a immaginare le mie foto stampate ed esposte su un muro, ma piuttosto raccolte in un libro. Mi piace pensare al libro come a un oggetto che puoi dimenticare di avere e ritrovare nella tua libreria un giorno».