Pietro Bucciarelli è un fotografo classe 1998. Sebbene si sia avvicinato alla fotografia durante la sua adolescenza, è solo nell’ultimo anno che ha preso consapevolezza del ruolo che questa ricopre nella sua vita. Dopo un periodo come assistente di studio da Cesura, entra in residenza presso FABRICA a Treviso, dove tutt’ora vive e lavora presso il gruppo Benetton.
«Non riesco ancora bene a risalire da cosa e da dove nasce questa mia passione per la fotografia – se poi è passione che si può chiamare. Ho iniziato a fotografare male. Ho iniziato parecchi anni fa – non con una macchina fotografica a pellicola di mio nonno trovata in un cassetto come spesso si legge – ma all’età di quindici anni, quando me ne sono comprata una perché la desideravo, perché lo sentivo e iniziava ad annoiarmi quello che avevo. Da lì ho iniziato a fotografare, a fotografare male. Metto però come “anno zero” il 2021, l’anno in cui ho iniziato a riconoscere la mia fotografia. Ho preso consapevolezza del fatto di non avere nulla in mano, ho iniziato a farmi delle domande, a riconoscere quello che volevo raccontare, a cercare delle risposte, a capire che le migliori foto si fanno quando si sta senza fotografare, quando si sta a letto prima di dormire, o dopo parecchio tempo, quando riapri le cartelle di foto vecchie sugli hardisk. Questa mia ricerca non la reputo un “voler qualcosa” – lo trovo presuntuoso – e non vorrei neanche cadere nel cliché de “la fotografia come necessità” ma semplicemente, nella maniera più naturale e sincera del mondo, è una cosa che faccio, una cosa che mi piace e una cosa che a volte mi emoziona».
Durante la nostra chiacchierata, Pietro ci confida che il suo rapporto con la fotografia è molto fisico e nasce dal «bisogno di vedere la foto, di toccarle. Stampo praticamente tutte le immagini che produco e che mi capitano. Nello specifico, perché lavorando in analogico, sono costretto per vedere il risultato ma in generale perché riesco a vedere l’immagine solo quando ho tra le mani la “materia fotografica”. Riesco a riconoscere e capire la mia fotografia solamente a distanza di tempo, e questo è un altro fattore che posso collocare in questa linea del tempo che segna “l’anno zero” a cui mi riferivo prima». Prosegue raccontando che uno dei fattori principali nella suo processo creativo è quello estetico, «l’estetica delle cose» come la definisce Pietro. «Essendo un’amante del bello – prosegue – l‘estetica è un fattore che incide anche per l’80% nella mia produzione. Lo considero un meccanismo molto fisico, vedo o sento qualcosa che mi piace, come un frutto, una persona, un sogno, e inizio a pensarci su, magari scatto, non ci penso, scrivo o resto a guardare soltanto. Reputo li mio lavoro come un’indagine e una ricerca». Nonostante la giovinezza professionale di Pietro, ha le idee chiare quando gli chiediamo la sua opinione riguardo alla nostra necessità contemporanea di produrre immagini e il loro scopo: «inutile starci a girare attorno, la fotografia è stata fatta per essere condivisa. Che sia su un social – primo riferimento che viene in mente non appena si sente la parola “condivisione” – un magazine, una mostra o un libro, questi non sono altro che canali differenti per arrivare a qualcuno. Non tanto per cercare un riscontro ma piuttosto per mostrare quello che accade intorno a noi agli altri, quello che un fotografo vede ma anche la serata con gli amici o il tramonto di chi la fotografia non l’ha scelta di professione. Mi piace mettere lo spettatore di fronte a questo mio racconto, di fronte alle cose che mi piacciono, alle menzogne che racconto – attraverso la fotografia – alle cose semplici che mi catturano e che non riesco a togliermi poi dalla testa. Condurre una persona affinché arrivi a leggere la tua lingua, ad impararla. Perché non è una lingua semplice, per niente. Sono molto legato anche alle belle parole, alle volte sono più quelle ad emozionarmi che le “belle immagini” e ammetto che molto spesso è da li che parto per il mio lavoro. Scavando tra i suoi riferimenti confessa che «mi piace tutto e niente, sono una persona che osserva molto, curioso ma che si annoia subito delle cose. Ho pochissima attenzione ma ho tanta fame che mi fa mangiare molto ma che spesso non mi sazia. I fotografi che più ho osservato, e sui quali sono tornato più volte, sono tanti e tra i più disparati, tra questi: i maestri Luigi Ghirri e Guido Guidi per quanto riguarda lo scheletro dell’immagine, Roger Ballen per la sensazione di malessere e malattia che riesce a trasmettere, Paula Rego per la sua atmosfera grottesca e surreale che non riesco ad immaginare neanche se mi sforzo, ma anche Ralph Gibson per la materia, Andrè Kertesz per le foto che io definisco “foto grandi” – dal punto di vista fisico, non “grandi foto”. Mi viene in mente anche Glen Luchford e in generale tutto il design italiano degli anni Sessanta, perché, a mio avviso, si è giunti ad un livello alto di armonia tra gusto estetico e funzionalità. Le classiche persone in giacca e cravatta che facevano cose fighe».
Terminiamo l’intervista chiedendogli il suo punto di vista sulla fotografia contemporanea. «A riguardo credo che non ci stia capendo molto. Ritengo che esista una fotografia contemporanea per ogni epoca e noi ne stiamo vivendo una dove è difficile conoscerne e definirne i tratti. Bisogna semplicemente aspettare ed esser bravi a non invecchiare o a invecchiare più tardi. Mi metto io in primis, tante volte quando mostro i miei lavori non riesco a capire effettivamente cosa siano. Ho l’impressione che ci sia un sistema ermetico, poca condivisione – genuina -, molta gelosia e paura di essere derubati. Penso che ora nel 2022 chi fa veramente fotografia contemporanea – chi in generale è contemporaneo – è colui che ha il coraggio di fare le cose che vuole e che lavora sapendo che non ha nulla da perdere».