«Il mio incontro con la fotografia è avvenuto abbastanza presto. Avevo circa 13 anni, frequentavo le scuole medie ed ero una ragazza molto timida, con poche amicizie e tendenzialmente molto sola». Esordisce così Camilla Ferrari, fotografa e videomaker di base a Milano, quando raggiunta per l’intervista, ci racconta il suo primo incontro con la fotografia. «I miei genitori mi avevano regalato una macchina fotografica da portare in gita a Napoli per scattare qualche immagine ricordo. La usai poco per quello scopo. Dall’altra parte invece, nella mia camera, avevo una piccola luce da comodino e un muro completamente libero, bianco, un blank canvas da riempire con le mie fantasie. Così, senza una vera coscienza di quello che stavo facendo ma spinta dalla voglia di vivere in realtà fantastiche, nacque in me l’urgenza di fissare quelle immagini che la mia mente creava. Ho passato interi pomeriggi, dopo scuola, a scattare degli autoritratti, e con Photoshop, ricreavo ambienti e situazioni surreali dove mi sentivo libera: a volte ero su una nuvola, altre in un bosco inquietante, altre ancora avevo quattro mani o il mio corpo si univa al tronco di un albero. Le possibilità erano infinite. Mi ricordo che passavo ore e ore al computer cercando di rendere questi fotomontaggi il più realistici possibile, nonostante ci fossero delle evidenti lacune tecniche da autodidatta. Da lì, però è partito tutto». Tra le componenti che fin da piccola hanno alimentato l’immaginazione di Camilla, la possibilità di viaggiare ha inciso in modo significativo sul suo linguaggio espressivo e il lavoro che oggi la contraddistingue.«Ho avuto la grande fortuna di avere dei genitori che amano viaggiare e durante l’estate portavano me e le mie sorelle alla scoperta di luoghi e paesaggi che mi affascinavano molto. In quei viaggi mi resi conto di quanto piccolo fosse l’essere umano in confronto alla natura – ho un ricordo molto vivido di una vista del Canyonlands National Park negli USA davanti alla quale mi sono sentita minuscola. In quei contesti sentivo il bisogno di riuscire a trasmettere le sensazioni che provavo nelle mie fotografie. Un viaggio in Marocco, invece cambiò nuovamente la mia prospettiva sul mezzo fotografico: dall’immensità degli spazi alla vastità delle folle, sono passata dal rifuggire l’essere umano a volerlo raccontare. In quel momento iniziai a pensare che forse la strada che volevo percorrere era quella del reportage e del fotogiornalismo più classicamente definiti, idea che con il tempo – e tutt’ora – ha iniziato a sgretolarsi».
Da un’iniziale approccio e urgenza verso l’immagine statica della macchina fotografica, il movimento del video ha donato alla fotografa la possibilità di indagare ulteriori modalità di investigazione del reale e la sua interpretazione. «Il video in questo senso ha contribuito molto a solidificare la consapevolezza di non voler fare il classico reportage. Avevo sempre usato la fotografia e l’immagine fissa, finché nel 2016 Instagram ha lanciato le Stories. Non avendo mai condiviso la mia vita privata sui social non sapevo bene come approcciare questa nuova forma, nonostante trovassi la sua caratteristica effimera molto interessante – l’idea di avere video brevissimi, che scompaiono dopo 24 ore, montati automaticamente in sequenza, mi ha affascinato. Ho riflettuto sul fatto che avrei potuto usare il medium video come se fosse un’immagine in movimento, un’estensione nel tempo della fotografia che congela, e così le Stories sono diventate un diario in cui allargare il modo di vedere che fino a quel momento avevo esplorato solo con la fotografia. Il suo formato verticale, che inizialmente era imposto dalla piattaforma e che nasce per essere fruito tramite lo smartphone, è diventato una chiave importante per me perché conserva un’approccio intimo, data dalla fruizione solitaria dei contenuti, un rapporto uno a uno, che spesso si crea in momenti di solitudine o raccoglimento. La combinazione tra l’immagine fissa e in movimento mi ha aperto a molte possibilità per creare una narrazione a più livelli, a volte in contrasto tra loro, a volte in eco e completamento». Crescendo, oltre ai viaggi e all’urgenza di condivisione che fin da piccola spinsero Camilla a voler comunicare tramite le immagini, la sua curiosità l’ha spinta a cercare ispirazione in molti ambiti creativi e non solo. «La mia ispirazione nasce dall’osservazione del ritmo della vita quotidiana, attraverso un approccio basato sulla lentezza e sull’attenzione verso le manifestazioni più semplici della realtà. Sono molto affascinata dai fenomeni di ambiguità percettiva, dalla poesia nascosta nelle manifestazioni del reale soltanto apparentemente insignificanti. Sono convinta che ci sia stupore e meraviglia ovunque e in ogni momento, se si osserva con pazienza e silenzio». Prosegue nel suo racconto. «C’è stato un momento in particolare dove ho capito questa cosa, ed è stato ad Antiparos durante un workshop con Gueorgui Pinkhassov, fotografo il cui lavoro è stato, ed è tutt’ora, particolarmente prezioso per me. Di lui mi ha colpito molto il modo in cui lui un giorno, a pranzo, ha osservato il riflesso di alcuni alberi sopra di noi all’interno della lama di un coltello d’argento, passando minuti e minuti in contemplazione non solo del fenomeno del riflesso ma anche della distorsione della realtà data dalla forma dell’oggetto. Per me è stato un momento folgorante che mi accompagna sempre quando scatto o riprendo col il video, l’idea di di non sapere mai se si sta guardando la realtà o il riflesso di questa».
La fotografa e videomaker prende ispirazione non solo dalla realtà che la circonda ma anche dal cinema e dall’arte, che svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo del suo linguaggio. «In The Mood For Love di Won Kar-wai è stato un film fondamentale, sia dal punto di vista visivo che da quello narrativo: le inquadrature complesse nella composizione, in cui molteplicità di livelli guidano lo sguardo dell’osservatore, i colori saturi, vividi, caldi, la lentezza delle sequenze, l’importanza dei silenzi. Quel film mi ha fatto ragionare su quanto per me la parola silenzio, il concetto di pausa, siano elementi centrali nel mio lavoro. Mi affascina molto anche l’elemento surreale, l’elaborazione fantastica del reale che diventa quasi gioco della corrente artistica del Realismo Magico, nata negli anni Venti del Novecento. Mi fa riflettere sul mio lavoro perché penso ci sia un’importate energia bambina in questo, una sorta di meditazione divertente in cui ogni cosa può diventare qualcos’altro in base a come la si guarda. Il seguire degli input ricevuti da ciò che ci circonda, senza necessariamente capire immediatamente che cosa effettivamente abbia colpito il nostro interesse». Non solo influenze dal passato, ma anche le sperimentazioni estetiche e musicali contemporanee spingono Camilla ad esplorare nuove possibilità. «Ultimamente mi interessano moltissimo i lavori in cui il medium fotografico viene utilizzato in combinazione con altri media, come nel lavoro di Sarker Protick dove immagine fissa, in movimento e il suono collaborano in un equilibrio perfetto, o lavori in cui l’immagine fotografica si accompagna a tecnologie come la fotogrammetria, l’utilizzo dell’artificial intelligence e della virtual reality – il mio progetto The Fabric of Change (2021) è un primo passo in questa direzione. Su questo tema mi viene in mente un’esposizione che ho visto ad Arles qualche anno fa di Persijn Broersen & Margit Lukacs, dal titolo Forest on Location, in cui un uomo esplora una foresta primordiale che si dissolve intorno a lui, mischiando sogno e veglia, vita e morte, illusione e realtà. Anche la musica ricopre un ruolo importante nella costruzione del mio linguaggio. Generi come la Ethereal music, la musica ambient, l’elettronica sperimentale, musica che usa elementi tradizionali per unirli a sonorità contemporanee, creano uno spazio fortemente meditativo che mi aiuta molto nel mio lavoro. Tra gli artisti che ascolto più spesso ci sono i Dead Can Dance, gli Agricantus, Franco Battiato, Popol Vuh, i The Books, ma anche i Moderat e Jon Hopkins. Brian Eno, con il suo 77 Milllion Paitings è stato il punto di partenza del mio lavoro The Fabric of Change». Sebbene queste e molte altre influenze vanno a comporre il suo articolato linguaggio estetico, Camilla ci confessa che l’origine di ogni suo progetto personale scaturisce da un’esperienza o un elemento autobiografico, combinato ad un approccio istintivo mediato da un’approfondita ricerca. «Al momento, ad esempio, sto iniziando a lavorare su un progetto che avrà come tema il sogno – ancora in stato estremamente embrionale – per il quale la ricerca, la lettura, la raccolta di immagini hanno un peso molto importante. Diversamente invece è stato per Aquarium, che nasce dall’esperienza di un attacco di panico che ho avuto a Pechino nel 2017, progetto che ho sviluppato in modo totalmente istintivo perché voleva reinterpretare la realtà in un momento in cui la mia percezione delle cose era totalmente compromessa. Se rifletto però a come sintetizzare ciò che per me è il processo creativo, mi piace pensare alla fotografia/video come ad un rito di rabdomanzia, una costante ricerca di scintille nascoste».
Durante la nostra chiacchierata, tra le molte suggestioni emerse, ci viene spontaneo chiedere a Camilla quale sia per lei il valore di un’immagine e cosa questa può trasmettere e raccontare.«Il mio rapporto con il visual storytelling è iniziato usando la fotografia come unico medium, con un’impostazione molto classica guidata dall’idea che mi sarei occupata di fotogiornalismo. Crescendo e approfondendo la mia pratica nel corso degli anni, mi sono resa sempre più conto di volermi allontanare da quella definizione per intraprendere un approccio multimediale che, negli ultimi anni, si costituisce di un mix di immagini fisse e video verticali. Per me, questi due media sono come portali che mi permettono di esplorare lo spazio che esiste tra la realtà e la sua rappresentazione e interpretazione. Penso che il linguaggio multimediale sia in grado di creare diversi livelli in cui le immagini si mescolano con i movimenti e i suoni e quindi guidano l’osservatore verso un’esperienza più profonda e immersiva, direi quasi contemplativa: la combinazione tra staticità e movimento crea una conversazione tra i due linguaggi che vede l’osservatore al centro, quasi con il ruolo di moderatore».
©Camilla Ferrari, Acquarium