«Mi piace rintracciare nelle azioni quotidiane significati e connessioni che rimandano a una realtà simbolica. I collegamenti tra persone e cose, tra oggetti, tutto è un gioco di percezioni. Un po’ come se cercassi la stessa sensazione in tutto quello che scatto, qualcosa di estremamente familiare e contemporaneamente alieno. Con la fotografia creo immagini inserendo una sorta di narrazione filmica che vuole rimandare a una storia, a volte più chiara a volte meno, filtrata da una buona dose di ironia. Mi piace giocare con le analogie, forme che nella mia mente riconducono ad altre e altre ancora. La realtà per me è un pretesto, la trasformo per creare qualcosa di nuovo e per aprirmi a prospettive diverse, caricandola di significati. Non mi interessa il soggetto in sé, potrei fotografare qualsiasi cosa. Quello che cerco, indifferentemente dalla sua natura e forma, è una precisa sensazione, come un’attrazione fisica legata al desiderio».
Sara Scanderebech è tra gli sguardi più eclettici del panorama artistico milanese. Quando l’abbiamo incontrata ci ha confessato che questa vocazione creativa fa parte del suo dna: «ho avuto la fortuna di nascere in un ambiente artistico. I miei genitori mi hanno influenzata tantissimo. Mia madre è un’insegnante di musica e mio padre ha sempre disegnato, dipinto, suonato e fotografato in pellicola. Sebbene sin da piccola sognassi di lavorare nel mondo dell’arte, non avevo ben chiaro in quale ambito. La musica, ad esempio, è fondamentale per la mia ricerca, sono una vera appassionata di elettronica sperimentale. Durante i miei studi di pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera non ho mai apprezzato veramente la fotografia e ho iniziato a prendere confidenza con la macchina fotografica solo dopo l’università, quando ho avuto l’occasione di lavorare per la galleria Carla Sozzani come fotografa interna. Dopodiché ho collaborato con realtà culturali indipendenti come Macao, Standards e Buka. Qui fotografavo i concerti e i live, entravo nei backstage ed avevo la fortuna di stare vicina agli artisti. Dopo qualche anno mi sono ritrovata ad abbandonare pennelli e collage, focalizzando tutte le energie sulla fotografia. Per ora ho trovato in questa forma una mia sintesi espressiva, ma non è escluso che in futuro possa riprendere i pennelli o sperimentare con la musica».
Una formazione nella pittura, che con il tempo Sara è riuscita a veicolare nell’immagine fotografica, facendolo diventare un suo tratto estetico distintivo. «Ho trovato la mia chiave espressiva quando ho cominciato a paragonare la fotografia alla pittura e al disegno, comprendendo che anche questo era un modo per creare immaginari. È stato un passaggio molto naturale, gli ultimi collage credo di averli fatti nel 2016. Ora sembra quasi non riesca più a tornare indietro, a pensare alla fotografia come un mezzo estraneo all’emotività». Oggi la fotografa, studiando e comprendendo a fondo l’immagine fotografica, la definisce come un’interferenza nella realtà: «a volte esco con la macchina fotografica sapendo cosa voglio scattare ma spesso vado alla ricerca, ed è in questo caso che trovo le cose più interessanti. Mi piace rintracciare nelle azioni quotidiane significati e connessioni che rimandano a una realtà simbolica. I collegamenti tra persone e cose, tra oggetti, tutto è un gioco di percezioni, dura un attimo. Un po’ come se cercassi la stessa sensazione in tutto quello che scatto, qualcosa di estremamente familiare e contemporaneamente alieno. Con la fotografia creo immagini inserendo una sorta di narrazione filmica che vuole rimandare a una storia, a volte più chiara a volte meno, filtrata da una buona dose di ironia. Mi piace giocare con le analogie. Forme che nella mia mente riconducono ad altre e altre ancora. Nei miei scatti rifletto molto su cosa siamo abituati a vedere e come interagiamo con gli oggetti quotidiani, a cosa ci rimanda una forma del corpo, alla sensualità che spontaneamente trasferiamo tutti i giorni su cose inanimate o sulle persone. Lavoro molto sulla composizione di uno scatto. La realtà per me è un pretesto, la trasformo per creare qualcosa di nuovo e per aprirmi a prospettive diverse, caricandola di significati. Non mi interessa il soggetto in sè, potrei fotografare qualsiasi cosa. Quello che cerco, indifferentemente dalla sua natura e forma, è una precisa sensazione, come un’attrazione fisica legata al desiderio quasi sensuale di indizi che ci dicano che tutto è collegato, che tutto fa parte di qualcosa di più grande: è questo che mi induce a scattare. Vengo ispirata da qualsiasi cosa che mi faccia capire il nostro posto nel mondo e nella natura. Quest’ultima è un altro elemento che mi piace esplorare. In particolar modo il nostro rapporto come esseri umani con la natura. Mi piace osservare quel micro mondo a cui difficilmente facciamo caso: come ad esempio la vita all’interno di un laghetto o un insetto poggiato su un fiore. Voglio portare all’attenzione degli altri questi mondi invisibili».
Tra le sue inesauribili fonti d’ispirazione, benché venga dagli studi di pittura e oggi si esprima prevalentemente con la fotografia, il cinema è determinante. «Diversamente da altri fotografi, ho molti più riferimenti estetici nella video arte e nella cinematografia orientale che nella storia della fotografia. In particolare i film del regista coreano Kim Ki Duk per come gli attori e i personaggi interagiscono tra loro, con l’ambiente, con movimenti quasi impercettibili, espressioni sottili e spesso difficili da comprendere. Uno tra i miei film preferiti è A snake of June (2002) di Shinya Tsukamoto, per l’elemento dell’acqua, la dominante blu che caratterizza tutto il film e per la sua storia che narra le vicende di un uomo che scatta fotografie a una donna di nascosto, ricattandola e inducendola a fare delle azioni per liberare la sua sessualità. Un classico invece è Fallen Angels (1995) di Wong Kar Wai, mi piace molto una scena in cui un’attrice ascolta una canzone in un bar attendendo un uomo che non arriverà mai». Non mancano ovviamente riferimenti più contemporanei all’illustrazione e alla pittura. «Un’illustratrice francese di cui apprezzo molti il lavoro è Linda Merad, per il suo modo di personificare la natura o viceversa. Nel circuito indipendente di Milano mi ritrovo molto nell’interpretazione dei dettagli e di alcune parti del corpo nelle opere pittoriche di Miss Goffetown. Ho conosciuto il suo lavoro allo Spazio Martin insieme a quello di altri due creativi: Roberto Aponte, che lavora prevalentemente con la ceramica, e l’architetto Francesco Pizzorusso. Luoghi indipendenti come lo Spazio Martin e Galera Sansoda sono indispensabili per creare rete tra creativi e trovare nuove ispirazioni. Oltre a questi c’è Standards tramite i quali ho conosciuto Niccolò Tramontana che è la persona dietro Radio Safari, un podcast che riproduce i suoni di animali e insetti autoctoni dei luoghi dove vengono registrati. Ho avuto la fortuna di collaborare con Niccolò per Terraforma a Villa Arconati, rintracciando una similitudine tra i nostri due approcci. Io quando scatto la natura non so mai cosa mi aspetta e il tempo che dovrò impiegarci. La ricerca e l’osservazione è quasi uno stato di meditazione. Nel mio approccio alla natura come artista, tra le mie letture fondamentali c’è il libro La Nazione delle Piante di Stefano Mancuso e il film Il Pianeta Azzurro di Franco Piavoli del 1982. Quest’ultimo è una sorta di documentario in cui, oltre alla descrizione del passare delle stagioni, c’è anche la ripresa del rapporto tra un uomo e una donna in un campo. Questa scena mi ha sempre ricondotto alla mente le opere di Laure Prouvost, una delle mie artiste preferite per quel suo linguaggio un po’ erotico, sensuale ma allo stesso tempo ironico. Tornando alla fotografia, in Italia sento molto vicino il lavoro di Nicolas Polli, mentre a livello internazionale Rinko Kawauchi, Maise Cousins e Torbjorn Rodland. Per quanto riguarda il design trovo molto interessante il lavoro ospitato quest’anno in una mostra dallo show-room di Marséll dei Soft Baroque dal titolo Sun City. Alex Valentina, invece, è un graphics designer e produttore musicale che stimo molto, in particolare per il suo lavoro in 3D. Con lui abbiamo avuto uno scambio riguardo alla forma migliore su cui veicolare immagini create in digitale, come ad esempio la macchina fotografica, e se la carta sia o no il supporto di destinazione migliore. Ad esempio ultimamente ho sperimentato la stampa delle mie immagini su tessuti, banner plastificati e altri supporti, per approfondire questo aspetto e ampliare l’indagine sulle modalità di fruizione delle immagini».
La ricerca artistica di Sara viene alimentata anche grazie al suo lavoro come curatrice della libreria d’arte ospitata all’interno del concept store Marsèll Paradise, dell’omonimo brand di moda, oltre a occuparsi per loro della comunicazione social. «Come curatrice del bookshop sono contenta di notare quanto la carta stampata, nel circuito indipendente, abbia vissuto un grande rilancio negli ultimi anni, contrariamente a quando si è temuto di una sua scomparsa. Si torna anche ad acquistare libri fotografici, di arte e di design sia nuovi che vintage. Il ruolo di curatrice è un lavoro che amo e che mi fa conoscere bellissime realtà e progetti come quelli proposti dalle case editrici Same Paper di Shanghai, la Witty Books di Torino, e le produzioni di Erik Kessels, solo per citarne alcuni».
Credits:
- Foto di Sara Scanderebech per Radio Safari
- “A snake of June” (2002) di Shinya Tsukamoto